
Zsolt Torok e “Il viaggio del Piccolo Principe” sul Pumori
Il nostro atleta della Romania, Zsolt Torok, con il suo team si è portato a casa un grosso risultato questo autunnno in Nepal. Nella frequentatissima valle del Kumbhu, in mezzo ai giganti della terra Everest e Lhotse, ha concluso un progetto che aveva già tentato nel 2017.
Allora, lui e il connazionale Vlad Capusan, erano stati costretti ad abbandonare la salita dopo che Capusan era stato investito da una valanga quando si trovavano ancora in parete, sopra i 6000 metri. Dalle sue parole traspare una grande emozione per un risultato che sarà candidato al Piolet D’or.
Versante Sud Est
Via nuova “Il viaggio del Piccolo Principe”
Dislivello dal campo base alle vetta: 1856m
Durata 12 ottobre – 21 ottobre 2018
Ciao Zsolt, le vette del Khmbu più alte sono note a tutti, anche ai profani. Ma il Pumori non è invece così frequentato, parlaci di questa vetta…
È una delle montagna più emblematiche e difficili della regione. È collocato molto vicino al Monte Everest, proprio di fronte, tanto che il suo nome significa infatti la “figlia selvaggia della montagna”. La sua enorme piramide attira lo sguardo, sia dei tanti che si trovano lì solo per il trekking attorno all’Everest sia di tutti gli alpinisti (o aspiranti tali) che arrivano nell’area.
Nonostante l’alta frequentazione della montagna, la vetta è poco tentata ci dicevi…
Si, mentre, a breve distanza, sull’Everest, ogni anno si svolge la mercificazione della montagna, gli scorbutici pendii e pareti del Pumori rimangono silenziosi e la sua cima poco tentata. La difficoltà e il grosso impegno fanno da selezione ai suoi pretendenti, rispetto all’Everest, qui bisogna essere davvero alpinisti. Il Pumori ha un tasso di successo dei tentativi di vetta molto basso, persino sulla via normale.
Da quanto pensavi a questa linea?
L’idea di una nuovo tracciato su questa montagna ha colpito la mia immaginazione sin dal 2015, l’anno del terremoto in Nepal, quando ebbi l’opportunità di studiare la parete e intuii una possibilità di nuova via sulla parete Sud Est, ancora mai salita. Le Voyage du Petit Prince inizia a 5660 metri dalla base del ripido ghiacciaio in corrispondenza di un conoide di scarico delle valanghe e corre a sinistra della via scozzese (Sandy Allan, Rick Allen, 1986).
Sappiamo che per te lo stile di una salita conta tanto quanto l’obiettivo: che approccio avete usato?
Per me la strategia non poteva che essere una: in stile alpino e un single push. Il nostro team, composto da Romeo Popa, Teofil Vlad e me, ha deciso di installare una tenda, che potremmo chiamare Campo Base Avanzato a 5660 metri, proprio alla base del ghiacciaio, in modo da essere proprio al punto di inizio dell’itinerario progettato. Qui abbiamo portato il cibo, l’attrezzattura e il gas necessario per avere abbastanza risorse per la salita. Da questo punto in poi, considerato il tipo di terreno, abbiamo ipotizzato i posti per tre bivacchi in parete mentre al quarto giorno contavamo di terminare la linea e porre l’ultimo campo sulla cresta verso la cima. Là, al campo 4, abbiamo poi dovuto aspettare un giorno ancora, sperando che i forti venti diminuissero d’intensità e avere quindi un meteo accettabile per raggiungere la cima.
Vuoi dire che, nonostante da lì vi mancasse così poco, avete passato un intero giorno chiusi in tenda senza poter tentare la vetta?
Esatto, a dirla tutta non sapevamo con certezza se il meteo per il giorno della cima sarebbe stato meglio o peggiore del giorno speso attendendo. Di certo il giorno successivo abbiamo raggiunto la cima con raffiche di vento fino a 105 km/h e una temperatura percepita di -27°.
In questo genere di ascensioni spesso il momento più delicato è la discesa, specie su queste vette “tecniche”, ripide e prive di una facile via normale veramente facile. Siete scesi dalla linea di salita?
No, sarebbe stato un azzardo, per la ritirata avevamo esplorato un’area del ghiacciaio verso il versante ovest della montagna, comunque non banale ma non verticale come la linea da cui eravamo saliti.
Come si sono rivelate le difficoltà della via lungo i giorni di salita?
Il 1° giorno ci siamo svegliati all’una, mangiato qualcosa molto velocemente e iniziato a scalare circa alle due sul ripido ghiacciaio, complicato, pieno di insidiosi seracchi, raggiungendo qualche centinaio di metri dopo il “collo di bottiglia”. La luce del giorno è arrivata alle 5:30, fin ad allora ci eravamo mossi con le torce frontali. Poco prima dell’imbuto ci siamo riorganizzati e abbiamo iniziato l’ascesa verso il primo nevaio su ghiaccio chiaro. Proseguendo dentro l’imbuto su passaggi verticali e a tratti strapiombanti abbiamo raggiunto questo nevaio, dove abbiamo proseguito la salita in obliquo verso destra. Considerando le dimensioni della montagna abbiamo scalato molto lunghezze di corda (quasi tutte da 60 metri), arrangiandoci a attrezzare le soste sia su fittoni da neve che su viti da ghiaccio o su una combinazione di entrambi. Le soste erano sempre scomode e appese. Raggiunto il primo nevaio abbiamo cercato di trovare il miglior itinerario su roccia proteggendoci sia con ancoraggi da roccia che da ghiaccio (difficoltà M4).
Quando si è su un itinerario nuovo come nel vostro caso immagino che individuare il posto migliore dove passare la notte sia una delle principali preoccupazioni…
Sì infatti, riposare al sicuro e bene è fondamentale per essere in grado di proseguire il giorno seguente la salita. In quel punto eravamo sul fianco sinistro del nevaio e la giornata stava volgendo ormai al termine e la necessità di trovare un punto adatto iniziava a diventare assillante: dovevamo assolutamente trovare un buon posto in tempo. Proseguire al buio sarebbe stato troppo rischioso. Alla fine, lo abbiamo trovato, a circa 6050 metri, ma è stato un pessimo bivacco.
La notte vi ha debilitato molto?
Non c’era abbastanza spazio e così abbiamo passato una notte difficile. Per fortuna il giorno dopo è iniziato bene e abbiamo avanzato tiro di corda dopo tiro di corda su un terreno ripido riuscendo già a individuare da sotto dove saremmo dovuti entrare nella temuta rampa – il passaggio chiave della via – collocato nel terzo superiore di parete. Questa è stata la parte più tecnica della salita (grado M5), una salita spettacolare e tutto sommato piacevole, davvero tecnicamente esaltante considerando anche la quota a cui ci trovavamo.
Questo secondo giorno ci ha portato nella giusta direzione e siamo infine entrati nella rampa, trovando un posto ideale per il bivacco, l’unico sull’intera parete. È un grande strapiombo come una sorta di tetto a ripararci, con la neve per dormire bene e sciogliere per idratarci a sufficienza. Altitudine 6250 metri. Un bivacco perfetto che ci ha permesso di recuperare le forze da una giornata molto impegnativa.
Così il terzo giorno siete entrati nella famosa rampa…
Sì, qui abbiamo incontrato alcune lunghezze di corda su ghiaccio molto duro e difficoltà su misto fino al M6, una combinazione di spettacolare scalata su ghiaccio e roccia verticale, talvolta strapiombante e molto friabile. Uscirne è statala parte più difficile: improvvisamente qui il ghiaccio finiva e le protezioni erano tutte inaffidabili, su roccia non c’era quasi possibilità di usarne. C’era un pilastro di rocce molto friabili che letteralmente si sbriciolava e dovevamo scalare facendo una larga spaccata per superare il passaggio strapiombante (M6).
Qui finalmente le difficoltà si sono un po’ ridotte? Anche perché la quota avrà iniziato a farsi sentire…
Solo per poco. Dopo aver superato la rampa c’era un traverso verso sinistra seguito da un’altra lunghezza di corda (60 metri) che abbiamo chiamato Ragno (in omaggio al pendio della nord dell’Eiger). Un ripido scivolo a 60-70 gradi che offriva giusto giusto la possibilità d ricavare lo spazio per una tenda. Altitudine 6450 metri.
Quindi siamo già al quarto giorno e le difficoltà erano tali che vi eravate alzati di soli 800 metri…
Per fortuna sapevamo che probabilmente mancava solo l’ultima lunghezza chiave, per uscire dal Ragno (M6 60 metri). È stata molto difficile a causa del fatto che qui il sole aveva lasciato poco ghiaccio e abbiamo dovuto trovare la linea tra e il poco rimasto e la roccia. Dopo questi 60 metri la via più logica andava verso la cresta attraverso altre 4 lunghezze dove siamo saliti tra strane formazioni di ghiaccio a “canna d’organo” create dal vento (compreso un passaggio di M4). Fino a giungere all’ affilata cresta che conduce alla cima a 6777 metri. Qui abbiamo stabilito il campo 4.
La vetta era ormai a portata di mano…
Si, ma sul crinale rispetto alla parete eravamo molto più esposti al vento che il giorno successivo ha soffiato per tutto il giorno. Così abbiamo preso la sofferta decisione di aspettare condizioni meteo più favorevoli. Il giorno successivo abbiamo iniziato la salita verso la cima, ma il meteo ci ha messo davvero a dura prova. Era estremamente freddo, tanto che abbiamo atteso che il vento smettesse o almeno diminuisse. Così abbiamo rimandato l’uscita dalla tenda. C’erano solo 386 metri di dislivello da salire e abbiamo scelto di farli quando il sole si era alzato. Il vento ci buttava letteralmente a terra. Nonostante ciò, lentamente siamo riusciti a salire facendo attenzione a non farci sbattere giù dalla cresta. Alle tre del pomeriggio eravamo in cima, sfidando il meteo e beneficiando di 40 minuti di relativa calma. Riuscendo così a fare le foto e tornare al campo.
Avevate lasciato il campo avanzato ormai da una settimana, e la discesa è spesso il momento più delicato, quando la fatica porta a perdere lucidità…
Noi avevamo studiato la ritirata sul lato ovest su una parete comunque imponente ma più facile da discendere di quella che avevamo salito. Siamo scesi in corda doppia fin al ghiacciaio alla base in circa 13 ore e usando ogni metodo di ancoraggio per la discesa in doppia (chiodi, abalakov, viti da ghiaccio, fittoni di alluminio, fettucce su spigoli e barre a t su una neve non molto portante). Tutte le calate sono state da 60 metri. Abbiamo dormito alla base della parete, a 5760 metri.
Da lì finalmente era solo questione di camminare?
Non proprio. La ritirata dal grande ghiacciaio è stata “pura arte”. Fortunatamente quando eravamo ancora in alto avevamo identificato il giusto lato del ghiacciaio dove superare i crepacci, c’era una morena che sembrava connessa al fondo della valle. Dopo molte ore, arriviamo a questo passaggio nel labirinto di piccole torri di ghiaccio e rocce instabili. Infine, dal fondo della valle ci siamo incamminati sulle 8 ore di trekking che portano a Gorak Shep. Il giorno dopo eravamo di ritorno al campo base per celebrare con gli altri membri del team.
In conclusione, quel sogno cui tanto tenevi, è stato all’altezza delle tue aspettative?
Credo che la via “Le voyage du Petit Prince » rappresenti una via magnifica e diretta. Una sintesi perfetta in tutti i sensi del significato dell’arrampicata in alta quota e dall’alto valore tecnico e impegno.
Difficoltà, anche se in questi casi i numeri spesso non rendono l’impegno complessivo?
Le difficoltà dipendono molto dalle condizioni, nel nostro caso era buone. Considerando la mia esperienza sulle grandi pareti delle Alpi (Eiger, Grandes Jorasses, Drus e Civeta) mi sento certamente di dire che la nostra via è di categoria ED, tenendo conto che si è su una montagna di oltre 7000 metri. Ma oltre alle mere difficoltà e all’impegno, vorrei sottolineare la bellezza della linea, che svela uno dei più begli scenari del mondo, con i giganti del Nepal, Everest, Lhotse e Nuptse in tutta la loro maestosità.
Quali prodotti utilizzi durante questo genere di spedizioni?
Mi porto in dotazione tutta la varietà della gamma CT per l’alpinismo in quota, dal casco Orio, leggerissimo e confortevole, alle piccozze North Couloir, ottime sui terreni tecnici ma polivalenti al tempo stesso, dai ramponi alle viti da ghiaccio e ai fittoni per proteggere i tiri chiave dell’ascensione. Anche i miei colleghi usano le vostre piccozze. Ct ha prodotto dell’equipaggiamento davvero al top negli ultimi anni, questo significa massima maneggevolezza, design accattivante e leggerezza. Ognuno dei suoi prodotti ha queste caratteristiche, ma quelli che più amo sono le piccozze, i ramponi e le viti da ghiaccio. La piccozza è il simbolo stesso dell’alpinismo, la forma ricurva, la bilanciatura e l’angolo di impatto del modello North Couloir aiutano enormemente gli alpinisti di oggi nei passaggi tecnici. E le nuove piccozze di CT sono esattamente quello che ho sempre cercato da anni per le pareti alpine. Sin dalla mia salita al Cerro Torre dello scorso inverno ho poi utilizzato il nuovo rampone Hyper Spike montato monopunta, un prodotto che trovo davvero indovinato.
Ultima domanda, ma forse la più importante: perché questo nome, “Il Piccolo Principe”?
Questa è in assoluto la domanda cui preferisco Rispondere. Il Piccolo Principe dell’omonima opera di Antoine de Saint-Exupéry è un personaggio dall’essenza pura e viaggia nell’universo per raggiungere la saggezza. Lungo la sua strada incontra diversi altri personaggi e dialoga con loro in quel suo modo unico che lo contraddistingue. Il nome di questa via vuole essere un messaggio in codice, per coloro che sapranno coglierlo, per coloro che approcciano la vita con la stessa, pura e innocente curiosità. Io stesso, certamente mi ritrovo molto nella vicenda del Piccolo Principe. Per esempio, quando lui rivolge una domanda a qualcuno non si arrende fino a che ha ottenuto davvero una risposta. Allo stesso modo, io nel perseguire i miei progetti, non mi arrendo mai ai tentativi infruttuosi, e continuo a lottare per essi fino a che non li ho realizzati. La vita di noi tutti alpinisti è simile all’avventura del Piccolo Principe. Egli viveva da qualche parte molto molto lontano, è una personalità complessa, per raggiungere la sua destinazione incontra persone molto diverse. Spesso ci sentiamo viaggiatori dentro questo universo che è la vita ma sin dal momento in cui siamo nati fino a quello in cui “partiamo verso un’altrove”, è importante ciò che facciamo del nostro tempo e quali sono i valori in cui crediamo. Il Piccolo Principe rappresenta l’esempio di chi non ha mai rinunciato a credere nei propri valori…
- La parete (nel cerchio rosso il team in azione)
- Zsolt in salita su un ripido pendio di ghiaccio
- I giganti del Khumbu: Everest, Lhotse e Nuptse
- Un passaggio in cresta
- Scatto in controluce con la triade del Solo Khumbu alla luce del tramonto
- Vetta del Pumori
- Organizzazione del materiale
- Parte dell’attrezzatura usata durante la spedizione
- Zsolt in cima al Lobuche durante la fase di acclimatamento