Zsolt Torok: nuova variante sul Cerro Adela Sur e salita del Cerro Torre


«Il team rumeno composto da Zsolt Torok e Vlad Capusan è riuscito nell’ascesa della famosa vetta del Cerro Torre, in Patagonia: è la prima volta che accade nella storia dell’alpinismo rumeno.

La vetta del Cerro Torre, 3.106 metri nel sud dell’Argentina (Cordigliera delle Ande), è considerata uno degli obiettivi arrampicatori più inaccessibili: i venti toccano velocità di oltre 140 chilometri, e qualunque via si scelga, bisogna affrontare almeno 900 metri di parete granitica, per arrivare a una cima perennemente ricoperta da un “fungo” di ghiaccio. L’ascesa della vetta del Cerro Torre era andata a buon fine soltanto nel lontano 1974, molto più tardi rispetto alle grandi esplorazioni e conquiste himalayane, rappresentando, dunque, un dato che dice molto sulle difficoltà che cela.

Zsolt e il compagno hanno percorso oltre 85 chilometri e più di 3.200 metri di dislivello durante i sette giorni trascorsi sulla montagna. I due rumeni hanno iniziato la salita insieme a un team statunitense, e tutti coloro i quali si trovavano sulla montagna, trattandosi di una scalata dallo spirito alpinistico, hanno collaborato sia nella salita che nella discesa. Le sezioni più difficili di Elmo/Head Wall e il ben noto tratto finale sono state superate dopo oltre otto impegnative ore. I rumeni, insieme agli altri alpinisti, per poter proseguire nell’ascensione, hanno dormito sotto la vetta per una notte. Il percorso si è rivelato inaspettatamente difficile e le temperature molto basse, specialmente nella discesa, quando si è alzato il ben noto forte vento patagonico.

L’ascensione del Cerro Torre rappresenta una nuova e importante pagina dell’alpinismo rumeno e completa i successi finora raggiunti con una conquista di riferimento».

Cerro Adela Sur e Cerro Torre – Via Ragni di Lecco: la parola a Zsolt Torok

«Credo che tutti noi sogniamo montagne e vette indipendentemente dal fatto se riusciremo o meno a scalarle; ma la vita ci offre sempre delle opportunità, e noi dobbiamo saperle cogliere, facendoci magari trovare nel posto giusto al momento giusto, proprio come è accaduto per l’ascesa verso la vetta del Cerro Torre.

Nonostante le montagne non siano così elevate come quelle himalayane, l’avvicinamento risulta più lungo e difficile a causa dell’assenza di tracciati evidenti: non si tratta di destinazioni “commerciali” e non godono dell’approccio di una massa di persone che batte i sentieri fino alla loro base.

Non disponendo di una finestra di tempo sufficiente per il Torre, ci siamo orientati dapprima verso il Cerro Adela Sur, un’ascesa che si poteva effettuare nel corso di una giornata. Il percorso si caratterizza per quasi 2.000 metri di dislivello e la linea che abbiamo seguito era molto complessa, con una varietà di passaggi, pareti, cime, ghiacciai sospesi e un corridoio di ghiaccio misto. L’ascensione su Adela risulta estremamente bella perché immersa in un paesaggio meraviglioso, con la vetta del Torre a destra e il Fitz Roy alle spalle: il panorama mozzafiato compensa le difficoltà. Dal basso ho notato la possibilità di deviare dal percorso noto e aprire una nuova linea: la parete che si trovava davanti a noi non era mai stata scalata prima d’ora, ma comportava anche un grande impegno perché friabile. In più, il maltempo ci ha costretto a scalare gli ultimi 500 metri in balia del vento e nel bel mezzo di una bufera di neve. Sulla vetta del Cerro Adela Sur si stava come in Antartide: le condizioni meteorologiche erano incredibili e bisognava pensare alla discesa. Alla fine, abbiamo optato per un bivacco scavato nella neve, che ci ha permesso di evitare l’ipotermia.

Una volta scesi dal Cerro Adela Sur, siamo venuti a conoscenza di una finestra di bel tempo adatta per scalare il Torre, che si sarebbe aperta a seguito di un periodo di maltempo. Così, abbiamo cercato di rimetterci in forma il più rapidamente possibile, finché è giunto il momento di lasciare El Chaltén.

Ancora 24 chilometri con uno zaino pesante sulle spalle, ancora Niponino e ancora brutto tempo. Stava piovendo, c’era molto vento ed eravamo fradici; in più, la tenda d’alta quota non resisteva alla pioggia, che penetrava in tutte le fessure. All’una di notte siamo partiti per il Col Standhardt e poi, accelerando, ci siamo diretti verso il Col de la Esperanza, incontrando altri team: sul Torre non saremmo stati da soli, ma avremmo condiviso la nostra grande avventura con altri, il che ci aveva rallegrato. Sotto il Col de la Esperanza sono arrivati americani e italiani, oltretutto di Lecco, da dove provengono i celebri “Ragni” pionieri del Torre.

Si prospettava una notte breve e, infatti, le luci del piccolo accampamento si sono accese presto e i team hanno cominciato a prepararsi. Nell’aria c’era agitazione, ma una volta partiti, la gioia dell’ascensione ci ha fatto dimenticare i problemi che avremmo dovuto affrontare.

Passo dopo passo, siamo giunti alla parete verticale di El Elmo, che ci ha mostrato un assaggio di come sarebbe stato il Head Wall e soprattutto l’ultimo segmento della vetta. Il tratto misto non esisteva perché era interamente ricoperto da un duro strato di ghiaccio bluastro, dove non era possibile usare friends, ma solo attrezzatura “ice”. Questi passaggi si sono dimostrati inaspettatamente spettacolari. Anche se proseguivamo a un buon ritmo, a volte sbirciavamo l’Head Wall per ipotizzare come l’avremmo superato: pareva troppo verticale ed eccessivamente inclinato verso l’esterno.

Gli americani si sono avvicinati sulla destra, noi, invece, abbiamo optato per l’approccio a sinistra, lungo un passaggio molto rischioso e senza possibilità di assicurazione per via delle condizioni del momento. Il percorso verso l’alto era aperto, ma non era lo stesso per i tunnel di ghiaccio, quindi avremmo dovuto scalare dall’esterno. Più l’ultimo tratto si avvicinava, più era chiaro che avremmo dovuto lottare per ore, mentre tutto veniva messo in discussione.

Dopo ripetuti tentativi, siamo stati costretti a dormire a 70 metri dalla vetta, noi come altri team: ciascuno ha allestito il bivacco secondo le proprie possibilità, ma lo spirito era positivo e siamo rimasti tutti, intenzionati a proseguire.

Il giorno successivo, consapevole di un imminente peggioramento del meteo, abbiamo ripreso la salita all’alba e, dopo un lavoro di diverse ore, nel pomeriggio, i nostri sforzi sono stati ricompensati e siamo giunti in cima. L’ultimo tratto e la discesa li abbiamo affrontati con gli altri alpinisti, organizzando insieme le numerose calate. È stato meraviglioso.

Una montagna emblematica, una delle vette più inaccessibili e una storia di fair play, sostegno e vero alpinismo.

Il ritorno è stato molto lungo, su Hiello Continental attraverso il Passo Marconi. Tirando le somme, il tempo è stato clemente solo per una giornata e mezza e siamo riusciti a portare a termine il nostro obiettivo perché, ripeto, eravamo nel posto giusto al momento giusto.

Il percorso dei Ragni di Lecco si è rivelato diverso, anche estremo, condizione che può cambiare di anno in anno, e dato che sulla linea del percorso non vi sono chiodi, gli alpinisti salgono come se fosse la prima volta, ma con la consapevolezza che altri sono riusciti nell’impresa».